Monteverdi – L’Orfeo

L’ORFEO

Favola in musica

Music: Claudio Monteverdi
Libretto: Alessandro Striggio
First performance: Mantua, 1607
Source consultated: printed Libretto, Mantua, 1607
Reference copy: Biblioteca comunale Teresiana – Mantua
Image: Barbiton player, Tomb of the Triclinium, Etruscan chamber tomb, Tarquinia

 

*Note to the reader: in the transcription of the libretto, passages for which there are no musical sources have been omitted.

 

 

 

Album price: 15,00

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LA MUSICA
Dal mio permesso amato a voi ne vegno,
incliti Eroi, sangue gentil di Regi,
di cui narra la Fama eccelsi pregi,
né giugne al ver, perch’è tropp’ alto il segno.
Io la Musica son, ch’ai dolci accenti
so far tranquillo ogni turbato core,
et or di nobil ira et or d’amore
posso infiammar le più gelate menti.
Io, su cetera d’or cantando soglio
mortal orecchia lusingar talora
e in guisa tal de l’armonia sonora
de le rote del ciel più l’alme invoglio.
Quinci a dirvi d’Orfeo desio mi sprona.
D’Orfeo che trasse al suo cantar le fere,
e servo fé l’Inferno a’ sue preghiere,
gloria immortal di Pindo e d’Elicona.
Or mentre i canti alterno or lieti or mesti,
non si mova augellin fra queste piante,
né s’oda in queste rive onda sonante,
ed ogni auretta in suo cammin s’arresti.
PASTORE
In questo lieto e fortunato giorno,
ch’ha posto fine a gli amorosi affanni
del nostro Semideo, cantiam Pastori,
con sì soavi accenti,
che sian degni d’Orfeo nostri concenti.
Oggi fatt’è pietosa
l’alma già sì sdegnosa
de la bella Euridice.
Oggi fatt’è felice
Orfeo nel sen di lei, per cui già tanto
per queste selve ha sospirato e pianto.
CORO
Vieni, Imeneo, deh, vieni,
e la tua face ardènte
sia quasi un sol nascente
ch’apporti a questi amanti i dì sereni,
E lunge ormai disgombre
degli affanni e del duol gli orrori e l’ombre.
NINFA
Muse, onor di Parnaso, amor del cielo,
gentil conforto a sconsolato core,
vostre cetre sonore
squarcino d’ogni nube il fosco velo.
E mentre oggi propizio al nostro Orfeo
invochiam Imeneo,
su ben temprate corde,
sia il vostro canto al nostro suon concorde.
CORO DI NINFE E PASTORI
Lasciate i monti,
lasciate i fonti,
Ninfe vezzose e liete,
e in questi prati
ai balli usati
vago il bel piè rendete.
Qui miri il sole
vostre carole,
più vaghe assai di quelle,
onde a la Luna,
la notte bruna,
danzano in ciel le stelle.
Poi di bei fiori
per voi s’onori
di questi amanti il crine,
ch’or dei martiri
de i lor desiri
godon beati al fine.
PASTORE
Ma tu, gentil cantor, s’a’ tuoi lamenti
già festi lagrimar queste campagne,
perch’or al suon della famosa cetra
non fai teco gioir le valli e i poggi?
Sia testimon del core
qualche lieta canzon che detti Amore.
ORFEO
Rosa del ciel, vita del mondo del mondo, e degna
prole di lui che l’Universo affrena.
Sol, ch’il tutto circondi e’l tutto miri,
dagli stellanti giri,
dimmi, vedesti mai
di me più lieto e fortunato amante?
Fu ben felice il giorno,
mio ben, che pria ti vidi,
e più felice l’ora
che per te sospirai,
poiche al mio sospirar tu sospirasti.
Felicissimo il punto
che la candida mano,
pegno di pura fede, a me porgesti.
Se tanti cori avessi
quanti occhi ha il ciel eterno, e quante chiome
han questi colli ameni il verde maggio,
tutti colmi sarieno, e traboccanti
di quel piacer ch’oggi mi fa contento.
EURIDICE
Io non dirò qual sia
nel tuo gioir, Orfeo, la gioia mia,
che non ho meco il core,
ma teco stassi in compagnia d’Amore.
Chiedilo dunque a lui, s’intender brami,
quanto lieta gioisca, e quanto t’ami.
PASTORE
Ma s’il nostro gioir dal ciel deriva
com’è dal ciel ciò che qua giù n’incontra,
giusto è ben che divoti
gli offriam incensi e voti.
Dunque al tempio ciascun rivolga i passi
a pregar lui nella cui destra è il mondo,
che lungamente il nostro ben conservi.
CORO DI PASTORI
Alcun non sia che disperato in preda
si doni al duol, benchè talor n’assaglia
possente sì che nostra vita inforsa,
che poiché nembo rio gravido il seno
d’atra tempesta inorridito ha il mondo,
dispiega il sol più chiaro i rai lucenti.
E dopo l’aspro gel del Verno ignudo
veste di fior la Primavera i campi.
CORO DI NINFE E PASTORI
Orfeo, di cui pur dianzi
furon cibo i sospir, bevanda il pianto
oggi felice è tanto
ché nulla è più che da bramar gli avanzi.
Ma perché tal gioire
dopo tanto martire? Eterni Numi,
vostr’opre eccelse occhio mortal non vede
ché splendente caligine li adombra.
Pur se lece spiegar pensiero interno
sol per cangiarlo ove l’error si scopra,
direm che in questa guisa,
mentre i voti d’Orfeo seconda il cielo,
prova vuol far di sua virtù più certa.
Ch’il soffrir le miserie è picciol pregio,
ma’l cortese girar di sorte amica
suol dal dritto cammin traviare l’alme.
Oro così per foco è più pregiato.
Combattuto valore
godrà così di più sublime onore.
ORFEO
Ecco pur ch’a voi ritorno,
care selve e piagge amate,
da quel sol fatte beate
per cui sol mie notti han giorno.
PASTORE I
Mira ch’a se n’alletta
l’ombra, Orfeo, di que’ faggi,
or che infocati raggi
Febo dal ciel saetta.
PASTORE II
Su quelle erbose sponde
posiamci, e in vari modi,
ciascun sua voce snodi
al mormorio de l’onde.
DUE PASTORI
In questo prato adorno
ogni selvaggio Nume
sovente ha per costume
di far lieto soggiorno.
Qui Pan, Dio de’ Pastori,
s’udì talor dolente
rimembrar dolcemente
suoi sventurati amori.
Qui le Napèe vezzose,
schiera sempre fiorita,
con le candide dita
fu viste a coglier rose.
CORO DI NINFE E PASTORI
Dunque fa degni, Orfeo,
del suon de la tua lira
questi campi ove spira
aura d’odor Sabèo.
ORFEO
Vi ricorda, o bosch’ombrosi,
de’ miei lunghi aspri tormenti,
quando i sassi ai miei lamenti
rispondean fatti pietosi?
Dite, allor non vi sembrai
più d’ogni altro sconsolato?
Or Fortuna ha stil cangiato
ed ha volto in festa i guai.
Vissi già mesto e dolente,
or gioisco e quegli affanni
che sofferti ho per tant’anni
fan più caro il ben presente.
Sol per te, bella Euridice,
benedico il mio tormento,
dopo il duol vi è più contento,
dopo il mal vi è più felice.
PASTORE
Mira, deh mira Orfeo, che d’ogni intorno
ride il bosco e ride il prato,
segui pur col plettro aurato
d’addolcir l’aria in sì beato giorno.
MESSAGGERA
Ahi caso acerbo, ahi fato empio e crudele,
ahi stelle ingiuriose, ahi cielo avaro.
PASTORE
Qual suon dolente il lieto dì perturba?
MESSAGGERA
Lassa, dunque debb’io,
mentre Orfeo con sue note il ciel consola,
con le parole mie passargli il core?
PASTORE
Questa è Silvia gentile,
dolcissima compagna
de la bella Euridice: oh, quanto è in vista
dolorosa… or che fia? Deh, sommi Dei,
non torcete da noi benigno il guardo.
MESSAGGERA
Pastor, lasciate il canto,
ch’ogni nostra allegrezza in doglia è volta.
ORFEO
Donde vieni? ove vai? Ninfa, che porti?
MESSAGGERA
A te ne vengo, Orfeo,
messaggera infelice
di caso più infelice e più funesto.
La tua bella Euridice…
ORFEO
Ohimè, che odo?
MESSAGGERA
La tua diletta sposa è morta.
ORFEO
Ohimè!
MESSAGGERA
In un fiorito prato
con l’altre sue compagne
giva cogliendo fiori
per farne una ghirlanda a le sue chiome,
quando angue insidioso,
ch’era fra l’erbe ascoso,
le punse un piè con velenoso dente.
Ed ecco immantinente
scolorirsi il bel viso e ne’ suoi lumi
sparir que’ lampi, ond’ella al sol fea scorno.
Le fummo intorno, richiamar tentando
gli spirti in lei smarriti,
con l’onda fresca e co’ possenti carmi.
Ma nulla valse, ahi lassa,
ch’ella i languidi lumi alquanto aprendo,
e te chiamando, Orfeo,
dopo un grave sospiro
spirò fra queste braccia, ed io rimasi
piena il cor di pietade e di spavento.
PASTORE I
Ahi caso acerbo, ahi fato empio e crudele,
ahi stelle ingiuriose, ahi cielo avaro.
PASTORE II
A l’amara novella
rassembra l’infelice un muto sasso,
che per troppo dolor non può dolersi.
PASTORE III
Ahi, ben avrebbe un cor di tigre o d’orsa
chi non sentisse del tuo mal pietate,
privo d’ogni tuo ben, misero amante.
ORFEO
Tu sei morta, mia vita, ed io respiro?
Tu sei da me partita
per mai più non tornare, ed io rimango?
No, che se i versi alcuna cosa ponno,
n’andrò sicuro a’ più profondi abissi,
e, intenerito il cor del re de l’ombre,
meco trarrotti a riveder le stelle.
O se ciò negherammi empio destino,
rimarrò teco in compagnia di morte.
Addio, terra, addio cielo e sole, addio.
CORO DI NINFE E PASTORI
Ahi caso acerbo, ahi fato empio e crudele,
ahi stelle ingiuriose, ahi cielo avaro.
Non si fidi uom mortale
di ben caduco e frale,
che tosto fugge, e spesso
a gran salita il precipizio è presso.
MESSAGGERA
Ma io, ch’ in questa lingua
ho portato il coltello
ch’ha svenata ad Orfeo l’anima amante,
odiosa ai Pastori ed alle Ninfe,
odiosa a me stessa, ove m’ascondo?
Nottola infausta, il sole
fuggirò sempre e in solitario speco
menerò vita al mio dolor conforme.
CORO
Chi ne consola, ahi lassi?
O pur, chi ne concede,
Ne gli occhi, un vivo fonte
Da poter lagrimar come conviensi
in questo mesto giorno,
quanto più lieto già, tant’or più mesto?
Oggi turbo crudele
i due lumi maggiori
di queste nostre selve,
Euridice ed Orfeo,
l’una punta da l’angue
l’altro dal duol trafitto, ahi lassi, ha spenti.
Ma dove, ah dove or sono,
de la misera Ninfa,
le belle e fredde membra
che per suo degno albergo
quella bell’alma elesse,
ch’oggi è partita in sul fiorir de’ giorni?
Andiam, Pastori, andiamo
pietosi a ritrovarle,
e di lagrime amare
il dovuto tributo
per noi si paghi almeno al corpo esangue.
Ma qual funebre pompa
degna fia d’Euridice?
Portino il gran feretro
le Grazie in veste nera,
e con le lor chiome sparse,
le Muse sconsolate
l’accompagnin cantando
con flebil voce i suoi passati pregi.
Di nubi il ciel si cinga,
e con oscura pioggia,
pianga sopra il sepolcro.
E poi ch’egli avrà pianto,
languida luce spieghi,
e lampada funesta
sia di sì nobil tomba il sol dolente.
ORFEO
Scorto da te, mio Nume,
Speranza, unico bene
de gli afflitti mortali, omai son giunto
a questi regni tenebrosi e mesti
dove raggio di sol giammai non giunse.
Tu, mia compagna e duce
in così strane e sconosciute vie,
reggesti il passo debole e tremante,
ond’oggi ancora spero
di riveder quelle beate luci
che sol a gli occhi miei portan il giorno.
SPERANZA
Ecco l’atra palude, ecco il nocchiero
che trae gl’ignudi spirti a l’altra riva,
dov’ha Pluton de l’ombre il vasto Impero.
Oltre quel nero stagno, oltre quel fiume,
in quei campi di pianto e di dolore,
destin crudele ogni tuo ben t’asconde.
Or d’uopo è d’un gran core e d’un bel canto.
io sin qui ti ho condotto, or più non lice
teco venir, che amara legge il vieta,
legge scritta col ferro in duro sasso
de l’ima reggia in su l’orribil soglia,
che in queste note il fiero senso esprime:
lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.
Dunque se stabilito hai pur nel core
di porre il piè nella città dolente,
da te men fuggo e torno
a l’usato soggiorno.
ORFEO
Dove, ah dove ten vai,
unico del mio cor dolce conforto?
Poiché non lunge omai
del mio lungo cammin si scopre il porto,
perché ti parti e m’abbandoni, ahi lasso,
sul periglioso passo?
Qual bene or più m’avanza
se fuggi tu, dolcissima Speranza…?
CARONTE
O tu, ch’innanzi morte a queste rive
temerario ten vieni, arresta i passi.
Solcar quest’onde ad uom mortal non dassi,
né può co’morti albergo aver chi vive.
Che? Vuoi forse, nemico al mio Signore,
Cerbero trar dalle Tartaree porte?
O rapir brami sua cara consorte,
d’impudico desire acceso il core?
Pon freno al folle ardir, ch’entr’al mio legno
non accorrò più mai corporea salma,
sì de gli antichi oltraggi, ancor ne l’alma
serbo acerba memoria, e giusto sdegno.
ORFEO
Possente Spirto, e formidabil Nume,
senza cui, far passaggio a l’altra riva,
alma da corpo sciolta in van presume.
Non viv’ io, no, che poi di vita è priva
mia cara sposa, il cor non è più meco,
e senza cor, com’esser può ch’io viva?
A lei volt’ho il cammin per l’aer cieco,
a l’Inferno non già, ch’ovunque stassi,
tanta bellezza, il Paradiso ha seco.
Orfeo son io, che d’Euridice i passi
seguo per queste tenebrose arene,
ove giammai per uom mortal non vassi.
O, delle luci mie, luci serene,
s’un vostro sguardo può tornarmi in vita,
ahi, chi niega il conforto alle mie pene?
Sol tu, nobile Dio, puoi darmi aita,
né temer dei, che sopra una aurea cetra
sol di corde soavi armo le dita,
contra cui rigid’alma invan s’impetra.
CARONTE
Ben mi lusinga alquanto
dilettandomi il core,
sconsolato cantore,
il tuo pianto e’l tuo canto.
Ma lunge, ah lunge sia da questo petto
pietà, di mio valor non degno affetto.
ORFEO
Ahi, sventurato amante,
sperar dunque non lice,
ch’odan miei prieghi i cittadin d’Averno?
Onde, qual’ombra errante
d’insepolto cadavere infelice,
privo sarò del cielo e de l’Inferno?
Così vuol empia sorte,
ch’in quest’orror di morte,
da te, cor mio, lontano
chiami tuo nome in vano,
e pregando e piangendo io mi consumi?
Rendetemi il mio ben, Tartarei Numi.
Ei dorme, e la mia cetra,
se pietà non impetra
ne l’indurato core, almen il sonno
fuggir al mio cantar gli occhi non ponno.
Su, dunque, a che più tardo?
Tempo è ben d’approdar su l’altra sponda,
s’alcun non è ch’il neghi.
Vaglia l’ardir se foran vani i preghi.
È vago fior del Tempo,
l’occasion, ch’esser dee colta a tempo.
Mentre versan quest’occhi amari fiumi,
rendetemi il mio ben, Tartarei Numi.
CORO DI SPIRITI
Nulla impresa per uom si tenta in vano,
né contro lui più sa natura armarsi.
Ei, de l’instabil piano,
arò gli ondosi campi, e’l seme sparse
di sue fatiche, ond’aurea messe accolse.
Quinci, perché memoria
vivesse di sua gloria,
la Fama a dir di lui sua lingua sciolse,
ch’ei pose freno al mar con fragil legno,
che sprezzò d’Austro e d’Aquilon lo sdegno.
PROSERPINA
Signor, quell’infelice,
che per queste di morte aspre campagne
va chiamando Euridice,
ch’udito hai tu pur dianzi
così soavemente lamentarsi,
moss’ha tanta pietà dentro al mio core,
ch’un’altra volta torno a porger prieghi,
perché il tuo Nume al suo pregar si pieghi.
Deh, se da queste luci
amorosa dolcezza unqua traesti,
se ti piacque il seren di questa fronte,
che tu chiami tuo cielo, onde mi giuri
di non invidìar sua sorte a Giove,
pregoti per quel foco
con cui già la grand’alma amor t’accese.
Fa ch’Euridice torni
a goder di quei giorni,
che trar solea vivend’in festa e in canto,
e del miser’Orfeo, consola il pianto.
PLUTONE
Benché severo ed immutabil Fato
contrasti, amata sposa, i tuoi desiri,
pur nulla omai si nieghi
a tal beltà, congiunta a tanti preghi.
La sua cara Euridice
contra l’ordin fatale Orfeo ritrovi.
Ma pria che tragg’il piè da questi abissi,
non mai volga ver lei gli avidi lumi,
ché, di perdita eterna,
gli sia certa cagion un solo sguardo.
Io così stabilisco. Or nel mio Regno,
fate, o Ministri, il mio voler palese,
sì che l’intenda Orfeo
e l’intenda Euridice,
né di cangiar l’altrui sperar più lice.
CORO DI SPIRITI
Oh de gli abitator de l’ombre eterne
possente Re, legge ne fia tuo cenno,
ché, ricercar altre cagioni interne
di tuo voler, nostri pensier non denno.
Trarrà da queste orribili caverne
sua sposa Orfeo, s’adoprerà suo senno.
Sì che nol vinca giovanil desio,
né i gravi Imperi tuoi sparga d’oblio.
PROSERPINA
Quali grazie ti rendo,
or che sì nobil dono
concedi ai prieghi miei, Signor cortese?
Sia benedetto il dì che pria ti piacqui,
benedetta la preda e’l dolce inganno,
poi che, per mia ventura,
feci acquisto di te perdendo il sole.
PLUTONE
Tue soavi parole,
d’amor l’antica piaga
rinfrescan nel mio core,
così l’anima tua non sia più vaga
di celeste diletto,
sì ch’abbandoni il marital tuo letto.
CORO DI SPIRITI
Pietate, oggi, ed Amore
trionfan ne l’Inferno.
SPIRITO
Ecco il gentil cantore
che sua sposa conduce al ciel superno.
ORFEO
Qual onor di te fia degno,
mia cetra onnipotente,
s’hai nel tartareo regno
piegar potuto ogni indurata mente?
Luogo avrai tra le più belle
immagini celesti,
ond’al tuo suon, le stelle
danzeranno in giri or tardi or presti.
Io per te felice appieno
vedrò l’amato volto,
e nel candido seno
de la mia donna oggi sarò raccolto.
Ma mentre io canto, ohimè, chi m’assicura
ch’ella mi segua? Ohimè, chi mi nasconde
de l’amate pupille il dolce lume?
Forse, d’invidia punte,
le Deità d’Averno,
perch’io non sia qua giù felice appieno,
mi tolgono il mirarvi,
luci beate e liete,
che sol col sguardo altrui bear potete?
Ma che temi, mio core?
Ciò che vieta Pluton, comanda Amore.
A Nume più possente
che vince uomini e Dei
ben ubbidir dovrei.
Ma che odo? ohimè lasso,
s’arman forse a miei danni
con tal furor le furie innamorate
per rapirmi il mio ben, ed io’l consento?
O dolcissimi lumi, io pur vi veggio,
io pur… ma quale eclissi, ohimè, v’oscura?
UNO SPIRITO
Rott’hai la legge, e se’ di grazia indegno.
EURIDICE
Ahi, vista troppo dolce e troppo amara.
Così, per troppo amor, dunque mi perdi?
Ed io, misera, perdo
il poter più godere
e di luce e di vita, e perdo insieme
te, d’ogni ben più caro, o mio consorte.
CORO DI SPIRITI
Torna a l’ombre di morte,
infelice Euridice,
né più sperar di riveder il sole
ch’ormai fia sordo a’preghi altrui l’Inferno.
ORFEO
Dove ten vai, mia vita? Ecco, io ti seguo.
Ma chi mel vieta? Ohimè, sogno o vaneggio?
Qual poter, qual furor, da questi orrori,
da questi amati orrori
mal mio grado mi tragge, e mi conduce
a l’odiosa luce?
CORO DI SPIRITI
È la virtute un raggio
di celeste bellezza,
pregio de l’alma, ond’ella sol s’apprezza.
Questa, di Tempo oltraggio
non teme, anzi, maggiore
nel’uom rendono gl’anni il suo splendore.
Orfeo vinse l’Inferno, e vinto poi
fu dagli affetti suoi.
Degno d’eterna gloria
fia sol colui, ch’avrà di se vittoria.
ORFEO
Questi i campi di Tracia e quest’è il loco
dove passommi il core,
per l’amara novella, il mio dolore.
Poiché non ho più speme
di ricovrar pregando,
piangendo e sospirando,
il perduto mio bene,
che poss’io più, se non volgermi a voi,
selve soavi, un tempo
conforto a’miei martir, mentre al ciel piacque,
per farvi per pietà meco languire
al mio languire.
Voi vi doleste, o monti, e lagrimaste,
voi sassi, al dipartir del nostro sole,
ed io con voi lagrimerò mai sempre,
e mai sempre dorrommi, ahi doglia, ahi pianto!
ECO
Ahi pianto…
ORFEO
Cortese Eco amorosa,
che sconsolata sei,
e consolar mi vuoi ne’dolor miei,
benché queste mie luci
sïen già per lagrimar fatte due fonti,
in così grave mia fera sventura,
non ho pianto però tanto che basti.
ECO
Basti…
ORFEO
Se gli occhi d’Argo avessi
e spandessero tutti un Mar di pianto,
non fora il duol conforme a tanti guai.
ECO
Ahi…
ORFEO
S’hai del mio mal pietade, io ti ringrazio
di tua benignitade.
Ma mentr’io mi querelo,
deh, perché mi rispondi
sol con gli ultimi accenti?
Rendimi tutti integri i miei lamenti.
Ma tu, anima mia, se mai ritorna
la tua fredda ombra a queste amiche piaggie,
prendi da me queste tue lodi estreme,
ch’or a te, sacro la mia cetra e’l canto,
come a te, già sopra l’altar del core,
lo spirto acceso in sacrifizio offersi.
Tu bella fusti e saggia, e in te ripose
tutte le grazie sue cortese il cielo,
mentre ad ogn’altra de’suoi don fu scarso.
D’ogni lingua, ogni lode a te conviensi,
ch’albergasti in bel corpo alma più bella,
fastosa men quanto d’onor più degna.
Or l’altre donne son superbe e perfide,
ver chi le adora, dispietate, instabili,
prive di senno e d’ogni pensier nobile,
quinci non fia giammai che per vil femmina,
amor con aureo stral il cor trafiggami.
*At this point, Striggio’s libretto follows Ovid and ends with the slaughter of Orpheus by the Bacchae. Unfortunately, we do not have the musical sources for this scene. The following verses are taken entirely from the printed score (Venice, 1607).
APOLLO
Perché a lo sdegno ed al dolor in preda
così ti doni, o figlio?
Non è, non è consiglio
di generoso petto
servir al proprio affetto.
Quinci, biasmo e periglio
già sovrastar ti veggio,
onde movo dal ciel per darti aita.
Or tu m’ascolta, e n’avrai lode e vita.
ORFEO
Padre cortese, al maggior uopo arrivi,
ch’a disperato fine
con estremo dolore
m’avean condotto già sdegno ed Amore.
Eccomi dunque, attento a tue ragioni,
celeste padre; or ciò che vuoi m’imponi.
APOLLO
Troppo, troppo gioisti
di tua lieta ventura,
or troppo piagni
tua sorte acerba e dura.
Ancor non sai,
come nulla qua giù diletta e dura?
Dunque se goder brami immortal vita,
vientene meco al ciel, ch’a se t’invita.
ORFEO
Sì, non vedrò più mai,
de l’amata Euridice, i dolci rai?
APOLLO
Nel sole e nelle stelle
vagheggerai le sue sembianze belle.
ORFEO
Ben di cotanto padre sarei non degno figlio,
se non seguissi il tuo fedel consiglio.
APOLLO, ORFEO
Saliam cantando al cielo,
dove ha Virtù verace
degno premio di sè, diletto e pace.
CORO
Vanne, Orfeo, felice appieno
a goder celeste onore
là, ove ben non mai vien meno.
Là, ove mai non fu dolore,
mentr’altari, incensi e voti
noi t’offriam lieti e devoti.
Così va chi non s’arretra
al chiamar di lume eterno,
così grazia in ciel impetra,
chi qua giù provò l’Inferno;
e chi semina fra doglie
d’ogni grazia il frutto coglie.