Monteverdi – Combattimento di Tancredi e Clorinda

COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA

 

Music: Claudio Monteverdi
Text: adapted from Torquato Tasso’s Gerusalemme liberata
Date of composition: 1624
Consulted source: Madrigali guerrieri et amorosi, Venezia, 1638
Reference copy: Bibliothèque nationale de France, Paris
Image: Domenico Tintoretto, Tancredi Baptizing Clorinda, 1585, Houston

 

 

 

Tancredi che Clorinda un uomo stima
vuol ne l’armi provarla al paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
ver altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avvien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: “O tu, che porte,
correndo sì?” rispose “E guerra, e morte.”
“Guerra e morte avrai” disse “Io non rifiuto
darlati, se la cerchi.” E ferma attende.
Né vuol Tancredi, ch’ebbe a piè veduto
il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’un e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ira accende;
e vansi incontro a passi tardi e lenti,
quai due tori gelosi e d’ira ardenti.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e nell’oblio fatto sì grande,
degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian sì memorande.
Piacciati ch’indi il tragga e’n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama lor, e tra lor gloria
splenda dal fosco tuo l’alta memoria.
Non schivar, non parar, non pur ritrarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi
toglie l’ombra e’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro; e’l piè d’orma non parte;
sempre il piè fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.
L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or più si mesce e più ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
poi da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fier nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’un e l’altro il tinge
di molto sangue; e stanco e anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
L’un l’altro guarda, e del suo corpo esangue
sul pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
sul primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico e se non tanto offeso,
ne gode e insuperbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!
Misero, di che godi? Oh, quanto mesti
fian i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:
“Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che’l tuo nome e’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore.”
Rispose la feroce: “Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese.”
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: “In mal punto il dicesti.” indi riprese:
“Il tuo dir e’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta.”
Torna l’ira ne’cori, e li trasporta,
benché deboli, in guerra a fiera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna
ne l’arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.
Ma ecco omai l’ora fatal è giunta
che’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenere e lieve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e’l piè le manca egro e languente.
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo spirto addita,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtù che Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
“Amico, hai vinto; io ti perdon… perdona
tu ancora; al corpo no, che nulla pave,
all’alma sì. Deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave.”
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar invoglia e sforza.
Poco quindi lontan nel sen d’un monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide e la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
Non morì già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri détti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieta e vivace,
dir parea: “S’apre il ciel; io vado in pace.”