Monteverdi – L’incoronazione di Poppea

L’INCORONAZIONE DI POPPEA

Opera musicale

 

Music: Claudio Monteverdi
Libretto: Giovanni Francesco Busanello
First perfonrmance: Venice, 1642
Consulted source: Printed libretto, Venezia, 1656, (reference copy: Biblioteca della     musica – Bologna); Manuscript score, 1650 (reference copy: Conservatorio di musica S. Pietro a Majella – Napoli)

Image: Fresco with Mars and Venus as Lovers, from Pompeii, National Archaeological Museum, Naples

 

 

 

Album price: 12,00

You can buy and download the entire album or individual tracks on Bandcamp or order the audio files at readopera.libretti@gmail.com

 

 

 

PROLOGO
Fortuna, Virtù, Amore
FORTUNA
Deh, nasconditi, o Virtù,
già caduta in povertà,
non creduta Deità,
Nume ch’è senza tempio,
Diva senza devoti, e senza altari,
dissipata,
disusata,
mal gradita,
ed in mio paragon sempre avvilita.
Già regina, or plebea, che per comprarti
gl’alimenti e le vesti
i privilegi e i titoli vendesti.
Ogni tuo professore,
se da me sta diviso,
rimane un vacuo nulla
destituto da numeri, che mai
non rileva alcun conto,
sembra un foco dipinto
che né scalda, né splende;
resta un calor sepolto
in penuria di luce.
Né alcun de’ tuoi seguaci speri mai
di conseguir ricchezze, o gloria alcuna,
se protetto non è dalla Fortuna.
VIRTÙ
Deh sommergiti, mal nata,
rea chimera delle genti,
fatta Dea dagl’imprudenti.
Io son la vera scala,
per cui natura ascende al sommo bene.
Io son la tramontana,
che sola insegno agl’intelletti umani
l’arte del navigar verso l’Olimpo.
Può dirsi senza adulazione alcuna
il puro incorrutibil esser mio
termine convertibile con Dio,
che ciò non si può dir di te, Fortuna.
AMORE
Che vi credete, o Dee,
divider fra di voi del mondo tutto
la signoria, e’l governo,
escludendone Amore,
Nume, ch’è d’ambi voi tanto maggiore?
io le virtudi insegno,
io le fortune domo.
Questa bambina età
vince d’antichità
il tempo, e ogn’altro Dio;
gemelli siam l’eternitade ed io.
Riveritemi, adoratemi,
e di vostro sovrano il nome datemi.
FORTUNA, VIRTÙ
Uman non è, non è celeste core,
che contender ardisca con Amore.
AMORE
Oggi in un sol certame,
l’un e l’altra di voi da me abbattuta,
dirà, che ‘l mondo a’ cenni miei si muta.
SCENA I
Ottone
OTTONE
E pure io torno qui, qual linea al centro,
qual foco a sfera e qual ruscello al mare,
e se ben luce alcuna non m’appare,
ahi, so ben io, che sta il mio Sol qui dentro.
Caro tetto amoroso,
albergo di mia vita, e del mio bene,
il passo e’l core ad inchinarti viene.
Apri un balcon, Poppea,
col bel viso, in cui son le sorti mie,
previeni, anima mia, precorri il die.
Sorgi, e disgombra omai,
da questo ciel caligini, e tenebre
con il beato aprir di tue palpebre.
Sogni, portate a’ volo,
fate sentir in dolce fantasia
questi sospiri alla diletta mia.
Ma che veggio, infelice?
Non già fantasmi o pur notturne larve,
son questi i servi di Nerone; ahi, dunque
agl’insensati venti
io diffondo i lamenti.
Necessito le pietre a deplorarmi.
Adoro questi marmi,
amoreggio con lagrime un balcone,
e in grembo di Poppea dorme Nerone.
Ha condotti costoro,
per custodir se stesso dalle frodi.
O salvezza de’ Prencipi infelice,
dormon profondamente i suoi custodi.
Ahi, perfida Poppea,
son queste le promesse, e i giuramenti,
ch’accessero il cor mio?
Questa è la fede, O Dio!
Io son quell’Ottone,
che ti seguì,
che ti bramò,
che ti servì,
che t’adorò
che per piegarti, e intenerirti il core
di lagrime imperlò preghi devoti,
m’assicurasti al fine
ch’abbracciate averei nel tuo bel seno
le mie beatitudini amorose.
Io di credula speme il seme sparsi,
ma l’aria e’l cielo a’ danni miei rivolto
temperstò di ruine il mio raccolto.
SCENA II
Due Soldati
PRIMO SOLDATO
Chi parla? Chi va lì?
Ohimè, ancor non è dì!
Sorgono pur dell’Alba i primi rai.
Non ho dormito in tutta notte mai.
SECONDO SOLDATO
Camerata, che fai?
Par che parli sognando.
Sù, risvegliati tosto,
guardiamo il nostro posto.
PRIMO SOLDATO
Sia maledetto Amor, Poppea, Nerone,
e Roma, e la milizia,
soddisfar io no posso alla pigrizia
un’ora, un giorno solo.
SECONDO SOLDATO
La nostra Imperatrice
stilla se stessa in pianti,
e Neron per Poppea la vilipende.
L’Armenia si ribella,
ed egli non ci pensa.
La Pannonia dà all’armi, ei se ne ride,
così, per quant’io veggio,
l’impero se ne va di male in peggio.
PRIMO SOLDATO
Dì pur che il Prence nostro ruba a tutti,
per donar ad alcuni;
l’innocenza va afflitta,
e i scellerati stan sempre a man dritta.
SECONDO SOLDATO
Sol del pedante Seneca si fida.
PRIMO SOLDATO
Di quel vecchio rapace?
SECONDO SOLDATO
Di quel volpon sagace.
PRIMO SOLDATO
Di quel reo cortigiano,
che fonda il suo guadagno
sul tradire il compagno.
SECONDO SOLDATO
Di quell’empio architetto,
che si fa casa sul sepolcro altrui.
PRIMO SOLDATO
Non ridire ad alcun quel che diciamo.
Nel fidarti va scaltro,
se gl’occhi non si fidan l’un dell’altro,
e però nel guardar van sempre insieme.
PRIMO SOLDATO, SECONDO SOLDATO
Impariamo dagl’occhi,
a non trattar da sciocchi.
PRIMO SOLDATO
Ma già s’imbianca l’alba, e vien il dì,
taciam, Nerone è qui.
SCENA III
Poppea, Nerone
POPPEA
Signor, deh non partire,
sostien, che queste braccia
ti circondino il collo,
come le tue bellezze
circondano il cor mio.
NERONE
Poppea, lascia ch’io parta.
POPPEA
Non partir, Signor, deh non partire.
A pena spunta l’Alba, e tu che sei
l’incarnato mio sole,
la mia palpabil luce,
e l’amoroso dì della mia vita,
vuoi sì repente far da me partita?
Deh non dir di partir,
che di voce sì amara a un solo accento,
ahi perir, ahi spirar quest’alma io sento.
NERONE
La nobiltà de’ nascimenti tuoi
non permette che Roma
sappia che siamo uniti,
in sin ch’Ottavia…
POPPEA
In sin che… in sin che…
NERONE
In sin ch’Ottavia non riman esclusa…
POPPEA
Non rimane…
NERONE
In sin ch’Ottavia non riman esclusa
col repudio da me.
POPPEA
Vanne, vanne, ben mio.
NERONE
In un sospir, che vien
dal profondo del sen,
includo un bacio, o cara,
ed un addio.
Ci rivedrem ben tosto, Idolo mio.
POPPEA
Signor, sempre mi vedi,
anzi mai non mi vedi,
perché s’è ver, che nel tuo cor io sia,
entro al tuo sen celata,
non posso da’ tuoi lumi esser mirata.
NERONE
Adorati miei rai,
deh restatevi omai.
Rimanti, o mia Poppea,
cor, vezzo, e luce mia.
POPPEA
Deh, non dir di partir,
che di voce sì amara a un solo accento,
ahi perir, ahi spirar quest’alma sento.
NERONE
Non temer, tu stai meco a tutte l’ore,
splendor negl’occhi, e deità nel core.
POPPEA
Tornerai?
NERONE
Se ben io vo’ pur teco io sto
POPPEA
Tornerai?
NERONE
Il cor dalle tue stelle mai non si disvelle.
POPPEA
Tornerai?
NERONE
Io non posso da te viver disgiunto
se non si smembra la unità del punto
POPPEA
Tornerai?
NERONE
Tornerò.
POPPEA
Quando?
NERONE
Ben tosto.
POPPEA
Me’l prometti?
NERONE
Te’l giuro.
POPPEA
E me l’osserverai?
NERONE
E s’a te non verrò, tu a me verrai.
POPPEA
Addio, Nerone, addio.
NERONE
Addio, Poppea, ben mio.
SCENA IV
Poppea, Arnalta
POPPEA
Speranza, tu mi vai
il core accarezzando;
Speranza, tu mi vai
il genio lusingando,
e mi circondi in tanto
di regio sì, ma imaginario manto.
Se a tue promesse io credo
già in capo ho le corone,
e già il divo Nerone
consorte bramatissimo possiedo.
Ma se ricerco il vero
regina io son col semplice pensiero.
ARNALTA
Ahi figlia, voglia il Cielo,
che questi abbracciamenti
non sian un giorno i precipizi tuoi.
POPPEA
No, no, non temo, no, di noia alcuna.
ARNALTA
L’imperatrice Ottavia ha penetrati
di Neron gli amori,
ond’io pavento, e temo,
ch’ogni giorno, ogni punto,
sia di tua vita il giorno, il punto estremo.
POPPEA
Per me guerreggia Amor, e la Fortuna.
ARNALTA
La prattica coi Regi è perigliosa,
l’amor e l’odio non han forza in essi,
sono gli affetti lor puri interessi.
Se Neron t’ama, è mera cortesia,
s’ei t’abbandona, non ten’ puoi dolere.
Per minor mal ti converrà tacere.
Il Grande spira onor con la presenza.
Lascia, mentre la casa empie di vento,
riputazione e fumo a pagamento.
Perdi l’onor, con dir: “Neron mi gode.”
Son inutili vizi ambiziosi,
mi piaccion più i peccati fruttuosi.
Con lui tu non puoi mai trattar del pari,
e se le nozze hai per oggetto e fine,
mendicando tu vai le tue ruine.
Mira, mira Poppea,
dove il prato è più ameno e dilettoso,
stassi il serpente ascoso.
Dei casi le vicende son funeste,
La calma è profezia delle tempeste.
Ben sei pazza, se credi,
che ti possano far contenta e salva
un garzon cieco ed una donna calva.
SCENA V
Ottavia, Nutrice
OTTAVIA
Disprezzata Regina,
del Monarca Romano afflitta moglie,
che fo’, ove son, che penso?
O delle donne miserabil sesso:
se la natura e ‘l Cielo
libere ci produce,
il matrimonio c’incatena serve.
Se concepiamo l’uomo,
o delle donne miserabil sesso:
al nostro empio tiran formiam le membra,
allattiamo il carnefice crudele,
che ci scarna, e ci svena,
e siam forzate per indegna sorte
a noi medesme partorir la morte.
Nerone, empio Nerone,
marito, o Dio, marito
bestemmiato pur sempre,
e maledetto dai cordogli miei,
dove, ohimè, dove sei?
In braccio di Poppea,
tu dimori felice e godi, e intanto
il frequente cader de’ pianti miei
pur va quasi formando
un diluvio di specchi, in cui tu miri,
dentro alle tue delizie, i miei martiri.
Destin, se stai lassù,
Giove ascoltami tu.
Se per punir Nerone
fulmini tu non hai,
d’impotenza t’accuso,
d’ingustizia t’incolpo.
Ahi, trapasso tropp’oltre, e me ne pento,
sopprimo, e seppellisco
in taciturne angoscie il mio tormento.
O Cielo, o ciel, deh l’ira tua s’estingua,
Non provi i tuoi rigori il fallo mio.
Errò la superficie, il fondo è pio,
Innocente fu il cor,
peccò la lingua.
NUTRICE
Ottavia, o tu dell’universe genti
unica Imperatrice.
Di tua fida Nutrice, odi gli accenti.
Se Neron perso ha l’ingegno
di Poppea ne’ godimenti,
scegli alcun che di te degno
d’abbracciarti si contenti.
Se l’ingiuria a Neron tanto diletta,
abbi piacer tu ancor nel far vendetta.
E se pur aspro rimorso
dell’onor t’arreca noia,
fa riflesso al mio discorso,
ch’ogni duol ti sarà gioia.
OTTAVIA
Così sozzi argomenti
non intesi più mai da te, Nutrice!
NUTRICE
L’infamia sta gl’affronti in sopportarsi,
e consiste l’honor nel vendicarsi.
Han poi questo vantaggio
delle regine gli amorosi errori,
se li sa l’idiota, non li crede,
se l’astuto li penetra, li tace,
e’l peccato taciuto e non creduto
sta segreto e sicuro in ogni parte,
com’un che parli in mezzo un sordo, e un muto.
OTTAVIA
No, mia cara Nutrice,
la donna assassinata dal marito
per adultere brame,
resta oltraggiata sì, ma non infame.
Per il contrario resta
lo sposo inonorato,
se il letto marital li vien macchiato.
NUTRICE
Figlia e Signora mia, tu non intendi
della vendetta il principale arcano.
L’offesa sopra il volto
d’una sola guanciata
si vendica col ferro e con la morte.
Chi ti punge nel senso,
pungilo nell’onore,
se bene a dirti il vero,
né pur così sarai ben vendicata;
nel senso vivo te punge Nerone,
e in lui sol pungerai l’opinione.
Fa’ riflesso al mio discorso.
Ch’ogni duol ti sarà gioia.
OTTAVIA
Se non ci fosse né l’onor, né Dio
sarei nume a me stessa, e i falli miei
con la mia stessa man castigarei,
e però lunge dagli errori
divido il cor tra l’innocenza e l’pianto.
SCENA VI
Seneca, Ottavia, Valletto
SENECA
Ecco la sconsolata
donna, assunta all’impero,
per patir il servaggio: o gloriosa
del mondo Imperatrice,
sovra i titoli eccelsi
degl’insigni avi tuoi conspicua e grande.
La vanità del pianto
degl’occhi imperiali è ufficio indegno.
Ringrazia la fortuna,
che con i colpi suoi
ti cresce gl’ornamenti.
La cote non percossa
non può mandar faville.
Tu dal Destin colpita
produci a te medesma alti splendori
di vigor, di fortezza,
glorie maggiori assai, che la bellezza.
La vaghezza del volto, i lineamenti,
che in apparenza illustre
risplendon coloriti e delicati
da pochi ladri dì ci son rubati.
Ma la virtù costante
usa a bravar le stelle, il fato, e’l caso,
giammai non vede occaso.
OTTAVIA
Tu mi vai promettendo
balsamo dal veleno,
e glorie da tormenti.
Scusami, questi son, Seneca mio,
vanità speciose
studiati artifici,
inutili rimedi agl’infelici.
VALLETTO
Madama, con tua pace,
io vo’ sfogar la stizza che mi move
il filosofo astuto, il Gabba Giove.
M’accende pure a sdegno
questo miniator di bei concetti.
Non posso star al segno,
mentr’egli incanta altrui con aurei detti.
Queste del suo cervel mere invenzioni,
le vende per misteri e son canzoni.
S’ei sternuta o sbadiglia
presume d’insegnar cose morali,
e tanto l’assotiglia,
che moverebbe il riso a’ miei stivali.
Scaltra filosofia dov’ella regna,
sempre al contrario fa di quel ch’insegna.
Fonda sempre il pedante
su l’ignoranza d’altri il suo guadagno,
e accorto argomentante
non ha Giove per Dio, ma per compagno,
e le regole sue di modo intrica,
ch’al fin ne anch’egli sa ciò ch’ei si dica.
OTTAVIA
Neron tenta il ripudio
della persona mia
per isposar Poppea, si divertisca,
se divertir si può sì indegno esempio
tu per me prega il popolo e ‘l senato,
ch’io mi riduco a porger voti al tempio.
VALLETTO
Se tu non dai soccorso
alla nostra regina, in fede mia,
che vuo’ accenderti il foco
e nella toga, e nella libreria.
SCENA VII
Seneca
SENECA
Le porpore regali e imperatrici,
d’acute spine e triboli conteste,
sotto forma di veste
sono il martirio a prencipi infelici.
Le Corone eminenti
servono solo a indiademar tormenti.
Delle regie grandezze
si veggono le pompe e gli splendori,
ma stan sempre invisibili i dolori.
SCENA VIII
Pallade, Seneca
PALLADE
Seneca, io veggo in ciel infausti rai,
che minacciano te d’alte ruine.
s’oggi verrà della tua vita il fine,
pria da Mercurio avvisi certi avrai.
SENECA
Venga la morte pur, costante e forte.
Vincerò gli accidenti e le paure;
dopo il girar delle giornate oscure
è di giorno infinito alba la morte.
SCENA IX
Nerone, Seneca
NERONE
Son risoluto in somma
o Seneca, o Maestro,
di rimovere Ottavia
dal posto di consorte,
e di sposar Poppea.
SENECA
Signor, nel fondo alla maggior dolcezza
spesso giace nascosto il pentimento.
Consiglier scellerato è’l sentimento.
ch’odia le leggi e la ragion disprezza.
NERONE
La legge è per chi serve, e se vogl’io,
posso abolir l’antica e indur le nove.
È partito l’Impero: è il Ciel di Giove,
ma del mondo terren lo scettro è mio.
SENECA
Sregolato voler non è volere,
ma, dirò con tua pace, egli è furore.
NERONE
La ragione è misura rigorosa
per chi ubbidisce, non per chi comanda.
SENECA
Anzi, l’irragionevole comando
distrugge l’ubbidienza.
NERONE
Lascia i discorsi, io voglio a modo mio.
SENECA
Non irritare il popolo e’l Senato.
NERONE
Del Senato e del popolo non curo.
SENECA
Cura almeno te stesso e la tua fama.
NERONE
Trarrò la lingua a chi vorrà biasmarmi.
SENECA
Più muti che farai, più parleranno.
NERONE
Ottavia è infrigidita ed infeconda.
SENECA
Chi ragione non ha cerca pretesti.
NERONE
A chi può ciò che vuol ragion non manca.
SENECA
Manca la sicurezza all’opre ingiuste.
NERONE
Sarà sempre più giusto il più potente.
SENECA
Ma chi non sa regnar sempre può meno.
NERONE
La forza è legge in pace, e spada in guerra,
e bisogno non ha della ragione.
SENECA
La forza accende gli odi e turba il sangue.
La ragion regge gl’uomini e gli Dei.
NERONE
Tu mi forzi allo sdegno; al tuo dispetto,
e del popol in onta e del senato,
e d’Ottavia, e del Cielo, e dell’abisso,
siansi giuste od ingiuste le mie voglie,
oggi Poppea sarà mia moglie.
SENECA
Siano innocenti i regi,
o s’aggravino sol di colpe illustri.
S’innocenza si perde,
perdasi sol per guadagnar i regni,
che il peccato commesso
per aggrandir l’impero
si assolve da se stesso.
Ma che una femminella abbia possanza
di condurti agli errori,
non è colpa di rege e semideo:
è un misfatto plebeo.
NERONE
Levamiti dinnanzi,
maestro impertinente
filosofo insolente.
SENECA
Il partito peggior sempre sovrasta,
quando la forza alla ragion contrasta.
SCENA X
Nerone, Poppea
POPPEA
Come dolci, Signor, come soavi
riuscirono a te la notte andata
di questa bocca i baci?
NERONE
Più cari i più mordaci.
POPPEA
Di questo seno i pomi?
NERONE
Mertan le mamme tue più dolci nomi.
POPPEA
Di queste braccia gli stretti amplessi?
NERONE
Idolo mio, deh in seno ancor t’avessi.
Poppea respiro a pena;
Miro le labbra tue,
e mirando recupero con gl’occhi
quello spirto infiammato,
che nel baciarti, o cara, in te diffusi.
Non è, non è più in cielo il mio destino,
ma sta de labbri tuoi nel bel rubino.
POPPEA
Signor, le tue parole son sì dolci,
ch’io nell’anima mia
le ridico a me stessa,
e l’interno ridirle
necessita al deliquio il core amante.
Come parole l’odo,
come baci io le godo;
son de tuoi cari detti
i sensi sì soavi e sì vivaci,
che, non contenti di blandir l’udito
mi passano al stampar su ‘l cor i baci.
NERONE
Quell’eccelso diadema ond’io sovrasto
degl’uomini, e de regni alle fortune,
teco divider voglio,
e allor sarò felice
quando il titolo avrai d’Imperatrice.
Ma che dico, Poppea,
troppo picciola è Roma ai merti tuoi,
troppo angusta è l’Italia alle tue lodi,
e al tuo bel viso è basso paragone
l’esser detta consorte di Nerone;
ed han questo svantaggio i tuoi begl’occhi,
che, trascendendo i naturali esempi,
e per modestia non tentando i cieli,
non ricevon tributo d’altro onore,
che di solo silenzio e di stupore.
POPPEA
A speranze sublimi il cor innalzo
perché tu lo comandi,
e la modestia mia riceve forza;
ma troppo s’attraversa ed impedisce
delle regie promesse il fin sovrano
Seneca, il tuo maestro,
quello stoico sagace,
quel filosofo astuto,
che sempre tenta persuader altrui;
che il tuo scettro dipende sol da lui.
NERONE
Quel decrepito pazzo ha tanto ardire?
POPPEA
Ha tanto ardire!
NERONE
Olà, vada un di voi
a Seneca volando, e imponga a lui,
ch’in questo giorno ei mora.
Vuo’ che da me l’arbitrio mio dipenda,
non da concetti e da sofismi altrui.
Rinnegherei per poco
le potenze dell’alma s’io credessi
che servilmente indegne
si movessero mai col moto d’altre.
Poppea, sta di buon core,
oggi vedrai ciò che sa far Amore.
SCENA XI
Ottone, Poppea, Arnalta
OTTONE
Ad altri tocca in sorte
bere il liquor, e a me guardar il vaso.
Aperte stan le porte
a Neron, ed Otton fuori è rimaso.
Siede egli a mensa a satollar sue brame,
in amaro digiun mor’io di fame.
POPPEA
Chi nasce sfortunato
di se stesso si dolga, e non d’altrui.
Del tuo penoso stato
aspra cagion, Otton, non son, né fui.
Il Destin getta i dadi, e i punti attende,
l’evento o buono o reo da lui dipende.
OTTONE
La messe sospirata,
dalle speranze mie, da miei desiri,
in altra mano è andata,
e non consente Amor che più v’aspiri.
Neron felice i dolci pomi tocca,
e solo il pianto a me bagna la bocca.
POPPEA
A te le calve tempie,
ad altri il crine la Fortuna diede.
S’altri i desiri adempie
ebbe di te più fortunato piede,
la disventura tua non è mia colpa.
Te solo, adunque, e ‘l tuo Destino incolpa.
OTTONE
Sperai che quel macigno,
bella Poppea, che ti circonda il core,
fosse d’amor benigno
intenerito a pro del mio dolore.
Or del tuo bianco sen la selce dura
di mie morte speranze è sepoltura.
POPPEA
Deh, non più rinfacciarmi,
porta, deh porta il martellin in pace,
cessa di più tentarmi.
Al cenno Imperiale Poppea soggiace.
Ammorza il foco omai, tempra gli sdegni.
Io lascio te per arrivar ai regni.
OTTONE
E così l’ambizione
sovra ogni vizio tien la monarchia.
POPPEA
Così, la mia ragione,
incolpa i tuoi capricci di pazzia.
OTTONE
È questo del mio Amor il guiderdone?
POPPEA
Modestia, olà, non più, son di Nerone.
OTTONE
Ahi, chi ripone fede in un bel volto,
predestina se stesso a reo tormento,
fabbrica in aria, e sopra il vacuo fonda,
tenta palpare il vento,
ed immobili afferma il fumo, e l’onda.
ARNALTA
Infelice garzone
mi move a compassion il miserello.
Poppea non ha cervello
a non gl’aver pietà.
Quand’ero in altra età
non volevo gl’amanti
in lacrime distrutti.
Per compassion gli contentavo tutti.
SCENA XII
Ottone
OTTONE
Otton, torna in te stesso.
Il più imperfetto sesso
non ha per sua natura
altro d’uman in se, che la figura.
Mio cor, torna in te stesso.
Costei pensa al comando, e se ci arriva
la mia vita è perduta. Ella temendo
che risappia Nerone
i miei passati Amori,
ordirà insidie all’innocenza mia,
indurrà colla forza un che m’accusi
di lesa maestà, di fellonia.
La calunnia, da’ grandi favorita,
distrugge agl’innocenti onor, e vita.
Vo’ prevenir costei
col ferro, o col veleno.
Non mi vuò più nutrir il serpe in seno.
A questo, a questo fine
dunque arrivar dovea
l’amor tuo, perfidissima Poppea.
SCENA XIII
Drusilla, Ottone
DRUSILLA
Pur sempre di Poppea,
or con la lingua or col pensier discorri.
OTTONE
Discacciato dal cor viene alla lingua,
e dalla lingua è consegnato a’ venti
il nome di colei
ch’infedele tradì gl’affetti miei.
DRUSILLA
Il tribunal d’Amore
talor giustizia fa.
Di me non hai pietà
altri si ride, Otton, del tuo dolore.
OTTONE
A te di quanto son,
bellissima donzella,
or fo libero don.
Ad altri mi ritolgo,
e solo tuo sarò, Drusilla mia.
Perdona, o Dio, perdona
il passato scortese mio costume.
Benché dell’error mio non mi riprenda,
confesso i falli andati.
Eccoti l’alma mia pronta all’emenda.
Infin ch’io viverò,
t’amerà sempre, o bella,
quest’alma che ti fu cruda e rubella.
Già, già pentita dall’error antico
mi ti consacra omai servo, ed amico.
DRUSILLA
Già l’oblio seppellì
gl’andati Amori?
È ver, Ottone, è ver,
che a questo fido cor il tuo s’unì?
OTTONE
Drusilla, è ver, sì, sì.
DRUSILLA
Temo che tu mi dica la bugia.
OTTONE
No, Drusilla, no…
DRUSILLA
Otton, non so…
OTTONE
Teco non può mentir la fede mia.
DRUSILLA
M’ami adunque?
OTTONE
Ti bramo.
DRUSILLA
E come in un momento?
OTTONE
Amor è foco, e subito s’accende.
DRUSILLA
Sì subite dolcezze
ora gode lieto il mio cor, ma non l’intende.
M’ami adunque?
OTTONE
Ti bramo.
Ti dican l’amor mio le tue bellezze.
Per te nel cor ho nova forma impressa.
I miracoli tuoi credi a te stessa.
DRUSILLA
Lieta men vado, Otton, resta felice.
M’indirizzo a riveder l’Imperatrice.
OTTONE
Le tempeste del cor tutte tranquilla,
d’altri Otton non sarà, che di Drusilla.
E pure al mio dispetto, iniquo Amore,
Drusilla ho in bocca, ed ho Poppea nel core.
SCENA I
Seneca, Mercurio
SENECA
Solitudine amata,
eremo della mente,
romitaggio a’ pensieri,
delizie all’inteletto
che discorre e contempla
l’immagini celesti
sotto le forme ignobili e terrene.
A te l’anima mia lieta sen viene,
e lunge dalla corte,
che insolente e superba
fa della mia pazienza anotomia.
Qui tra le frondi e l’erbe,
m’assido in grembo della pace mia.
MERCURIO
Vero amico del Cielo
appunto in questa solitaria chiostra
visitarti io volevo.
SENECA
E quando, e quando mai
le visite divine io meritai?
MERCURIO
La sovrana virtù di cui sei pieno
deifica i mortali,
e perciò son da te ben meritate
le celesti ambasciate.
Pallade a te mi manda,
e ti annunzia vicina l’ultim’ora
di questa frale vita,
e’l passaggio all’eterna ed infinita.
SENECA
O me felice, dunque
s’ho vivuto fin’ora
degl’uomini la vita,
vivrò dopo la morte
la vita degli Dei.
Nume cortese, oggi il morir m’accenni?
Or confermo i miei scritti,
autentico i miei studi.
L’uscir di vita è una beata sorte,
se da bocca divina esce la morte.
MERCURIO
Lieto dunque t’accingi
al celeste viaggio.
Al felice passaggio,
t’insegnerò la strada
che ne conduce allo Stellato Polo.
Seneca or colà su io drizzo il mio volo.
SCENA II
Liberto, Seneca
LIBERTO
Il comando tiranno
esclude ogni ragione,
e tratta solo o violenza, o morte.
Io devo riferirlo, e nondimeno
relatore innocente
mi par esser partecipe del male
che a riferire io vado.
Seneca, assai m’incresce di trovarti
mentre pur ti ricerco.
Deh, non mi riguardar con occhio torvo
se a te sarò d’infausto annuncio il corvo.
SENECA
Amico, è già gran tempo,
ch’io porto il seno armato
contro i colpi del Fato.
La notizia del secolo in cui vivo,
forastiera non giunge alla mia mente.
Se mi arrechi la morte
non mi chieder perdono.
Rido, mentre mi porti un sì bel dono.
LIBERTO
Nerone a me comanda.
SENECA
Non più, t’ho inteso, ed obbedisco or ora.
LIBERTO
E come intendi prima ch’io m’esprima?
SENECA
La forma del tuo dir, e la persona
ch’a me ti manda, son due contrasegni
minacciosi e crudeli.
Del mio fatal destino
già, già son’indovino.
Nerone a me t’invia
a imponermi la morte.
Ed io sol tanto tempo
frappongo ad ubbidirlo
quanto basti formar ringraziamenti
alla sua cortesia, che mentre vede
dimenticato il Ciel de’ casi miei,
gli faccia sovvenir ch’io vivo ancora,
per liberar e l’aria e la natura
dal pagar l’ingiustissima angaria
de’ fiati, e i giorni alla vecchiaia mia.
Ma di mia vita il fine
non sazierà Nerone.
L’alimento d’un vizio all’altro è fame.
Il varco ad un eccesso a mille è strada,
ed è lassù prefisso,
che cento abissi chiami un sol abisso.
LIBERTO
Signor, indovinasti.
Mori, e mori felice,
che come vanno i giorni
all’impronto del sole
a marcarsi di luce,
così alle tue scritture
verran per prender luce i scritti altrui.
I nostri Imperatori
diventan dopo morte eterni numi,
e trionfante Roma,
quando un prencipe perde, acquista un Dio.
Ma tu morendo, o Seneca felice,
avrai la Deitade.
Non l’avrà mai Nerone,
ché non s’ammette in Ciel, Nume fellone.
SENECA
Vanne, vattene omai,
e se parli a Nerone avanti sera,
ch’io son morto e sepolto gli dirai.
SCENA III
Seneca
SENECA
Amici è giunta l’ora
di praticare in fatti
quella virtù, che tanto celebrai.
Breve angoscia è la morte;
un sospir peregrino esce dal core,
ov’è stato molt’anni,
quasi in ospizio, come forastiero,
e se ne vola all’Olimpo,
della felicità soggiorno vero.
FAMIGLIARI
Non morir, Seneca, no.
Io per me morir non vuo’.
Questa vita è dolce troppo,
questo ciel troppo sereno,
ogni amaro, ogni veneno
finalmente è lieve intoppo.
Se mi corco al sonno lieve,
mi risveglio in sul mattino,
ma un avel di marmo fino,
mai non dà quel che riceve.
SENECA
Supprimete i singulti,
rimandate quei pianti
dai canali degl’occhi
alle fonti dell’anima, o miei cari.
Vada quell’acqua omai
a lavarvi dai cori
dell’incostanza vil le macchie indegne.
Altr’essequie ricerca,
che un gemito dolente
Seneca moriente.
Itene tutti, a prepararmi il bagno,
ché se la vita corre
come il rivo fluente,
in un tepido rivo
questo sangue innocente io vuo’ che vada
a imporporarmi del morir la strada.
SCENA IV
Valletto, Damigella
VALLETTO
Sento un certo non so che,
che mi pizzica e diletta,
dimmi tu che cosa egli è,
Damigella amorosetta.
Se sto teco il cor mi batte,
se tu parti, io sto melenso,
al tuo sen di vivo latte
sempre aspiro e sempre penso.
Ti farei, ti direi,
ma non so quel ch’io vorrei.
DAMIGELLA
Astutello, garzoncello,
bamboleggia Amor in te.
Se divieni amante, a fé,
perderai tosto il cervello.
Tresca Amor per solazzo coi bambini,
ma siete Amor e tu due malandrini.
VALLETTO
Dunque Amor così comincia?
È una cosa molto dolce,
io darei per godere il tuo diletto
i ciregi, le pere, ed il confetto.
Ma se amaro divenisse
questo miel che sì mi piace,
l’addolciresti tu?
Dimmelo, luce mia, dimmelo, di’.
DAMIGELLA
L’addolcirei sì, sì.
VALLETTO
Ma come poi faresti?
DAMIGELLA
Che dunque non lo sai?
VALLETTO
Nol so, cara, nol so.
Dimmi, come si fa.
Fa ch’io lo sappia espresso,
perché se la superbia si ponesse
sul grave del sussiego
io sappia raddolcirmi da me stesso.
Mi par che per adesso,
se mi dirai che m’ami,
io mi contenterò.
Dimmelo, dunque, o cara,
e se vivo mi vuoi, non dir di no.
DAMIGELLA
T’amo, caro Valletto,
e nel mezzo del cor sempre t’avrò.
VALLETTO
Non vorrei, speme mia, starti nel core,
vorrei starti più in su.
Non so se sia mia voglia o saggia o sciocca,
io vorrei, ch’il mio cor facesse nido
nelle fossette belle e delicate,
che stan poco discoste alla tua bocca.
DAMIGELLA
Se ti mordessi poi?
Ti lagneresti in pianti tutto un dì.
VALLETTO
Mordimi quanto sai,
mai non mi lagnerò.
Morditure sì dolci
vorrei sempre goderle,
purché baciato io sia da tuoi rubini.
Mi mordan pur le perle.
SCENA V
Nerone, Lucano
NERONE
Or che Seneca è morto,
cantiam, cantiam, Lucano,
amorose canzoni
in lode d’un bel viso,
che di sua mano Amor nel cor, m’ha inciso.
LUCANO
Cantiam, Signor, cantiamo,
NERONE, LUCANO
Cantiam, cantiam di quel viso ridente,
che spira glorie ed influisce amori.
Cantiam, cantiam di quel viso beato,
in cui l’Idea di Amor se stessa pose,
e seppe su le nevi
con nova meraviglia,
animar, incarnar la granatiglia.
Cantiam di quella bocca
a cui l’India e l’Arabia
le perle consacrò, donò gli odori.
Bocca, ahi destin, che se ragiona o ride,
con invisibil arme punge, e all’alma
dona felicità mentre l’uccide.
Bocca, che se mi porge
lasciveggiando il tenero rubino
m’inebria il cor di nettare divino.
LUCANO
Tu vai, Signor, tu vai
nell’estasi d’amor deliziando
e ti piovon dagl’occhi
stille di tenerezza,
lagrime di dolcezza.
NERONE
Idolo mio, celebrarti io vorrei,
ma son minute fiaccole, e cadenti,
dirimpetto al tuo sole i detti miei.
LUCANO
O felice Poppea,
Signor nelle tue lodi.
O felice Nerone
in grembo di Poppea.
NERONE, LUCANO
Di Neron, di Poppea cantiamo i vanti.
NERONE
Apra le cataratte il Ciel d’Amore.
LUCANO
E diluvi, ed inondi a tutte l’ore
NERONE, LUCANO
Felicità sopra gl’amati amanti.
NERONE
Son rubini amorosi
tuoi labbri preziosi,
il mio core costante
è di caldo diamante,
così le tue bellezze ed il mio core
di care gemme ha fabbricato Amore.
Son rose senza spine
le tue guance divine,
gigli e ligustri eccede
il candor di mia fede,
così tra il tuo bel viso ed il mio core
la primavera sua divide Amore.
Ond’io lieto men vivo or tra gli amanti.
SCENA VI
Ottavia
OTTAVIA
Eccomi quasi priva
dell’Impero e’l consorte,
ma, lassa me, non priva
del ripudio, e di morte.
Martiri, o m’uccidete,
o speranze alla fin non m’affliggete.
Neron, ben mio, chi mi toglie, oh Dio.
Come, come ti perdo, ohimè.
Cadde l’affetto tuo, mancò la fé.
Poppea crudel, Poppea, cruda Poppea,
se lo stato mi togli,
se de’ miei regni, e d’ogni ben mi spogli
non me ne curo, no, prendili in pace,
ch’io cedendoli a te, credi, che sono
fuor d’ogni strazio rio, priva di lutto.
Nulla pretendo, e ti concedo il tutto.
Ma non mi niegar, no,
il mio sposo gradito.
Rendimi, il mio marito.
Lasciami questo sol, soffri a ragione.
Se mi togli l’imper, dammi Nerone.
Speranze, e che chiedete,
se disperata son, non m’affliggete.
Disumanato cor, barbaro seno;
Neron, Poppea tiranni,
cagioni de’ miei danni,
farò che’l ferro giunga
a recider lo stame
d’un affetto impudico, un petto infame,
così fia, che riposi, e non deliri,
che vendicata offesa
a chi d’oprarla o di trattarla è vaga,
disacerba la piaga,
mitiga il duol, e fuor d’ingiuria ascosa,
rende la cicatrice piu gloriosa.
Ma, che parlo? Che tento?
Uccidimi, tormento!
Laceratemi, o pene!
Straziatemi, martiri!
Soffocatemi voi, caldi sospiri.
Memorie, e che volete?
O lasciate i pensieri o m’uccidete.
SCENA VII
Ottone
OTTONE
I miei subiti sdegni,
la politica mia già poco d’ora
m’indussero a pensare
d’uccidere Poppea?
Oh mente maledetta,
perché se’ tu immortale, ond’io non posso
svenarti, e castigarti?
Pensai, parlai d’ucciderti, mio bene?
il mio genio perverso,
rinnegati gl’affetti,
ch’un tempo mi donasti,
piegò, cadè, proruppe
in un pensier sì detestando, e reo?
Cambiatemi quest’anima deforme,
datemi un’altro spirito meno impuro
per pietà vostra, o Dei!
Rifiuto un inteletto,
che discorre impietadi
che pensò sanguinario, ed infernale
d’offendere il mio bene, e di svenarlo.
Isvieni, tramortisci,
scellerata memoria, in ricordarlo.
Sprezzami quanto sai,
odiami quanto vuoi,
voglio esser Clizia al sol de’ lumi tuoi.
Amerò senza speme
al dispetto del Fato,
fia mia delizia amarti disperato.
Blandirò i miei tormenti,
nati dal tuo bel viso,
sarò dannato, sì, ma in Paradiso.
SCENA VIII
Ottone, Ottavia
OTTAVIA
Tu che dagli Avi miei
avesti le grandezze,
se memoria conservi
de’ benefici avuti, or dammi aita.
OTTONE
Maestade, che prega
è destin che necessita. Son pronto
a servirti, o Regina,
quando anco bisognasse
sacrificare a te la mia rovina.
OTTAVIA
Voglio che la tua spada
scriva gl’obblighi miei,
alla tua cortesia,
col sangue di Poppea. Vuo’ che l’uccida.
OTTONE
Che uccida chi?
OTTAVIA
Poppea.
OTTONE
Che uccida Poppea?
OTTAVIA
Poppea, Poppea. Perché dunque ricusi
quel che già promettesti?
OTTONE
Io ciò promisi?
Urbanità di complimento umìle,
modestia di parole costumate,
a che pena mortal mi condannate?
OTTAVIA
Che discorri fra te?
OTTONE
Discorro il modo
più cauto e più sicuro
d’una impresa sì grande. O Cielo, o Dei,
in questo punto orrendo
ritoglietemi i giorni, e i spirti miei.
OTTAVIA
Che mormori?
OTTONE
Fo voti alla Fortuna,
che mi doni attitudine a servirti.
OTTAVIA
E perché l’opra tua
quanto più presta fia, tanto più cara,
precipita gl’indugi.
OTTONE
Sì tosto ho da morir?
OTTAVIA
Ma che frequenti
soliloqui son questi? Ti protesta
l’imperial mio sdegno,
che se non vai veloce al maggior segno,
pagherai la pigrizia con la testa.
OTTONE
Se Neron lo saprà?
OTTAVIA
Cangia vestiti.
Abito mulìebre ti ricopra,
e con frode opportuna
sagace esecutor t’accingi all’opra.
OTTONE
Dammi tempo, ond’io possa
inferocire i sentimenti miei,
disumanare il core.
OTTAVIA
Precipita gl’indugi.
OTTONE
Dammi tempo, ond’io possa
imbarbarir la mano.
Assuefar non posso in un momento
il genio innamorato
nell’arte del carnefice spietato.
OTTAVIA
Se tu non m’ubbidisci,
t’accuserò a Nerone,
ch’abbi voluto usarmi
violenze inoneste,
e farò sì, che ti si stanchi intorno
il tormento e la morte in questo giorno.
OTTONE
Ad ubbidirti, Imperatrice, io vado.
Oh Ciel, Oh Dei
in questo punto estremo
ritoglietemi i giorni e i spirti miei.
SCENA IX
Ottavia
OTTAVIA
Vattene pure. La vendetta è un cibo,
che col sangue inimico si condisce.
Della spenta Poppea sul monumento
quasi a felice mensa
prenderò così nobile alimento.
Mora, mora la rea,
mora, mora Poppea,
già, già la punta del coltel la svena
scellerata, scellerata Poppea
verrà teco in sepolcro ogni mia pena,
risanarà il mio duolo,
del tuo sangue odiato un sorso solo.
Gioirò vendicata,
nascerà il mio seren da la tua morte.
E uccisa te, o malnata,
non sarà più tiranno il mio consorte!
E tornerà giocondo
il popolo, il senato e Roma, e’ l mondo.
SCENA X
Drusilla, Valletto, Nutrice
DRUSILLA
Felice cor mio
festeggiami in seno.
Dopo i nembi e gl’orror godrò il sereno.
Oggi spero che Ottone
mi riconfermi il suo promesso amore.
Festeggiami nel sen, lieto mio core.
VALLETTO
Nutrice, quanto pagharesti un giorno
d’allegra gioventù com’ha Drusilla?
NUTRICE
Tutto l’oro del mondo io pagherei.
L’invidia del ben d’altri,
l’odio di se medesma,
la fiachezza dell’alma,
l’infirmità del senso,
son quattro ingredienti,
anzi i quattro elementi
di questa miserabile vecchiezza,
che canuta e tremante
dell’ossa proprie è un cimiterio andante.
DRUSILLA
Non ti lagnar così, sei fresca ancora.
Non è il sol tramontato,
se ben passata è la vermiglia aurora.
NUTRICE
Il giorno femminil
trova la sera sua nel mezzo dì.
Dal mezzo giorno in là
sfiorisce la beltà.
Col tempo si fa dolce
il frutto acerbo e duro,
ma in ore guasto vien quel ch’è maturo.
Credetel pure a me,
o giovanette fresche in sul mattino.
Primavera è l’età
ch’Amor con voi si sta.
Non lasciate che passi
il verd’april o il maggio.
Si suda troppo in Luglio a fare il viaggio.
VALLETTO
Andiam a Ottavia omai,
Signora nonna mia.
Venerabile antica
del buon Caronte idolatrata amica.
NUTRICE
Ti darò una guanciata,
bugiardello insolente,
che sì, che sì.
VALLETTO
Andiam, che in te è passata
la mezza notte, non che il mezzo dì.
SCENA XI
Ottone, Drusilla
OTTONE
Io non so dov’io vada.
Il palpitar del core
ed il moto del piè non van d’accordo.
L’aria che m’entra in seno, quand’io respiro,
trova il mio cor sì afflitto, che pietosa
ella si cangia in subitaneo pianto.
E così, mentr’io peno,
l’aria per compassion mi piange in seno.
DRUSILLA
E dove, Signor mio?
OTTONE
Te sola io cerco.
DRUSILLA
Eccomi a’ tuoi piaceri.
OTTONE
Drusilla, io vo’ fidarti
Un secreto gravissimo; prometti
E silenzio, e soccorso?
DRUSILLA
Ciò che del sangue mio, non che dell’oro,
può giovarti e servirti,
è già tuo più che mio.
Palesami il secreto,
che del silenzio poi
ti dò l’anima in pegno, e la mia fede.
OTTONE
Non esser più gelosa
di Poppea. Senti, io devo
or ora, per terribile comando,
immergerle nel sen questo mio brando.
Per ricoprir me stesso
in misfatto sì enorme
io vorrei le tue vesti.
Se occultarmi potrò, vivremo poi
uniti sempre in dilettosi amori;
se morir converrammi,
nell’idioma d’un pietoso pianto
dimmi esequie, oh Drusilla,
se dovrò fuggitivo
scampar l’ira mortal di chi comanda,
soccorri a mie fortune.
DRUSILLA
E le vesti e le vene
ti darò volentieri.
Ma circospetto va, cauto procedi.
Nel rimanente, sappi
che le fortune, e le richezze mie
ti saran tributarie in ogni loco.
E proverai Drusilla
nobile amante, e tale
che mai l’antica età non ebbe eguale.
Andiam purch’io mi spoglio,
e di mia man travestirti io voglio.
Ma vo’ saper da te più a dentro e a fondo
di così orrenda impresa la cagione.
OTTONE
Andiam, andianne omai,
che con alto stupore il tutto udrai.
SCENA XII
Poppea, Arnalta
POPPEA
Or che Seneca è morto,
Amor, ricorro a te,
guida mie spemi in porto,
fammi sposa al mio Re.
ARNALTA
Pur sempre sulle nozze
canzoneggiando vai.
POPPEA
Ad altro, Arnalta mia, non penso mai.
ARNALTA
Il più inquieto affetto
è la pazza ambizione.
Ma se arrivi agli scettri e alle corone,
non ti scordar di me,
tiemmi appresso di te,
né ti fidar gia mai di cortigiani,
perché in due cose sole
Giove è reso impotente:
ei non può far che in cielo entri la morte,
né che la fede mai si trovi in corte.
POPPEA
Non dubitar, che meco
sarai sempre la stessa,
e non fia mai che sia
altra che te la secretaria mia.
Amor, ricorro a te.
Guida mia speme in porto,
fammi sposa.
Par che’l sonno m’alletti
a chiuder gl’occhi alla quiete in grembo.
Qui nel giardin, o Arnalta,
fammi apprestar del riposare il modo,
ch’alla fresc’aria addormentarmi godo.
ARNALTA
Udiste, ancelle, o là!
POPPEA
Se mi trasporta il sonno
oltre gli spazi usati,
a risvegliar mi vieni.
Né conceder l’ingresso nel giardino
fuorch’a Drusilla o ad altre confidenti.
ARNALTA
Adagiati, Poppea,
quietati, anima mia,
sarai ben custodita.
Amanti vagheggiate
il miracolo novo.
È luminoso il dì, sì come suole,
e pur vedete, addormentato il sole.
Oblivion soave
i dolci sentimenti
in te, figlia, addormenti.
Occhi ladri, occhi belli,
aperti, deh, che fate,
se chiusi anco rubate?
Poppea, rimanti in pace;
luci care e gradite,
dormite, omai, dormite.
SCENA XIII
Amore
AMORE
Dorme, l’incauta dorme. Ella non sa,
ch’or or verrà il punto micidiale.
Così l’umanità vive all’oscuro,
e quando ha chiusi gl’occhi
crede essersi del mal posta in sicuro.
O sciocchi e frali, sensi mortali.
Mentre cadete in sonnacchioso oblio
sul vostro sonno è vigilante Dio.
Siete rimasi gioco dei casi,
soggetti al rischio, e del periglio prede,
se Amor, genio del mondo, non provvede.
Dormi, o Poppea, terrena Dea,
ti salverà dall’armi altrui rubelle
Amor, che move il sole e l’altre stelle.
Gia s’avvicina la tua ruina;
ma non ti nuocerà strano accidente,
ch’Amor picciolo è sì, ma onnipotente.
SCENA XIV
Ottone, Amore, Poppea, Arnalta
OTTONE
Eccomi trasformato,
non di Otton in Drusilla,
ma d’uomo in serpe, al cui veneno, e rabbia
non vide il mondo, e non vedrà simìle.
Ma che veggio infelice?
Tu dormi, anima mia? Chiudesti gl’occhi
per non aprirli più? Care pupille,
il sonno vi serrò
affinché non vediate
questi prodigi strani.
La vostra morte uscir dalle mie mani.
Ohimè, trema il pensiero, il moto langue,
e’l cor fuor del suo sito
ramingo per le viscere tremanti
cerca un cupo recesso per celarsi,
o involto in un singulto,
ei tenta di scampar fuor di me stesso,
per non partecipar d’un tanto eccesso.
Ma che tardo? Che bado?
Costei m’aborre e sprezza, e ancor io l’amo?
Ho promesso ad Ottavia, se mi pento
accelero a miei dì funesto il fine.
Esca di corte chi vuol esser pio.
Colui che ad altro guarda,
che all’interesse suo, merta esser cieco.
Il fatto resta occulto,
la macchiata coscienza
si lava finalmente con l’oblio.
Poppea, t’uccido, Amor rispetti. Addio.
AMORE
Forsennato, scellerato,
inimico del mio Nume,
tanto adunque si presume?
Fulminarti dovrei,
ma non merti di morire
per la mano delli Dei.
Illeso va da questi strali acuti,
non tolgo al manigoldo i suoi tributi.
POPPEA
Drusilla, in questo modo,
con l’armi ignude in mano,
mentre nel mio giardin dormo soletta?
ARNALTA
Accorrete, accorrete,
o servi, o damigelle,
in seguire Drusilla, dalli, dalli.
Tanto mostro a ferir non sia chi falli.
SCENA XV
Amore
AMORE
Ho difesa Poppea,
vuo’ farla in questo giorno Imperatrice.
SCENA I
Drusilla
DRUSILLA
O felice Drusilla, o che sper’io.
Corre adesso per me l’ora fatale.
Perirà, morirà la mia rivale,
e Ottone finalmente sarà mio.
Se le mie vesti
avran servito a ben coprirlo,
con vostra pace, o Dei,
adorar io vorrò gli arnesi miei.
SCENA II
Arnalta, Littore, Drusilla
ARNALTA
Ecco la scellerata
che pensando occultarsi,
di vesti s’è mutata.
LITTORE
Fermati, morta sei.
DRUSILLA
E qual peccato mi conduce a morte?
LITTORE
Ancor t’infingi, sanguinaria indegna?
A Poppea dormiente
macchinasti la morte.
DRUSILLA
Ahi, caro amico, ahi sorte,
ahi, mie vesti innocenti.
Di me dolermi deggio, e non d’altrui.
Credula troppo, e troppo, troppo incauta fui.
SCENA III
Arnalta, Littore, Drusilla, Nerone
ARNALTA
Signor, ecco la rea
che uccidere tentò
la matrona Poppea.
Dormiva l’innocente nel suo giardino.
Sopraggiunse costei col ferro ignudo.
Se non si risvegliava in un momento
la tua devota ancella,
sopra di lei cadeva il colpo crudo.
NERONE
Onde tanto ardimento? E chi t’indusse,
rubella, al tradimento?
DRUSILLA
Innocente son io,
lo sa la mia coscienza, e lo sa Dio.
NERONE
Confessa omai, confessa, se t’indusse
l’autoritade, o l’oro al gran misfatto.
DRUSILLA
Innocente son io,
lo sa la mia coscienza, e lo sa Dio.
NERONE
Flagelli, funi e fochi
cavino da costei
il mandante e i correi.
DRUSILLA
Misera me, più tosto
che un atroce tormento
mi faccia dir quel che ridir non voglio
sopra me stessa toglio
la sentenza mortale, e il monumento.
O voi, ch’al mondo vi chiamate amici,
specchiatevi ora in me.
Questi del vero amico son gli uffici.
ARNALTA
Che cinguetti, ribalda?
LITTORE
Che vaneggi, assassina?
NERONE
Che parli, traditrice?
DRUSILLA
Mi contrastano in seno,
con fiera concorrenza ,
Amore, e l’innocenza.
NERONE
Prima ch’aspri tormenti
ti facciano sentir il mio disdegno,
or persuadi all’ostinato ingegno
di confessar gl’orditi tradimenti.
DRUSILLA
Signor, io fui la rea,
che uccidere tentò
l’innocente Poppea.
Quest’alma e questa mano
fur le complici sole.
A ciò m’indusse un odio occulto antico.
Non cercar più, la verità ti dico.
NERONE
Conducete costei
al carnefice omai.
Fate ch’egli ritrovi,
con una morte a tempo,
qualche lunga, ed asprissima agonia,
che inorridisca il fine a questa rea.
DRUSILLA
Adorato mio bene,
amami almen sepolta,
e su’l sepolcro mio,
mandino gl’occhi tuoi sola una volta
dalle fonti del core
lagrime di pietà, se non d’amore.
Ch’io vado fid’amica e ver’amante
tra i manigoldi irati
a coprir col mio sangue i tuoi peccati.
NERONE
Che si tarda, o ministri.
Provi, provi costei
mille morti oggi mai, mille ruine.
SCENA IV
Nerone, Drusilla, Ottone, Littore
OTTONE
No, no, questa sentenza
cada sopra di me, che ne son degno.
Siatene testimoni, o Cieli, o Dei,
innocente è costei.
Quest’alma e questa mano
fur i complici soli.
Acciò m’indusse un odio occulto e antico.
Non cercar più la verità, ti dico.
Io con le vesti di Drusilla andai,
per ordine di Ottavia Imperatrice,
ad attentar la morte di Poppea.
Dammi, Signor, con la tua man la morte;
Giove, Nemesi, Astrea
fulminate il mio capo,
che per giusta vendetta
il patibolo orrendo a me s’aspetta.
E se non vuoi che la tua mano adorni
di decoro il mio fine,
mentre della tua grazia io resto privo
all’infelicità lasciami vivo.
Se tu vuoi tormentarmi
la mia coscienza ti darà i flagelli.
Se a leoni, ed a gl’orsi espor mi vuoi,
dammi in preda al pensier delle mie colpe,
ch’ei mi divorerà l’ossa e le polpe.
NERONE
Vivi, ma va ne’ più remoti lidi
di titoli spogliato e di fortune,
e serva a te, mendico e derelitto,
di flagello e spelonca il tuo delitto.
E tu, ch’ardisti tanto, o nobile matrona,
per ricoprir costui
d’apportar salutifere bugie,
vivi alla fama della mia clemenza,
vivi alle glorie della tua fortezza,
e sia del sesso tuo nel secol nostro
la tua costanza un adorabil mostro.
DRUSILLA
In esiglio con lui,
deh Signor mio, consenti
ch’io tragga i dì ridenti.
NERONE
Vanne, come ti piace.
OTTONE
Signor, non son punito, anzi beato.
La virtù di costei
sarà richezza e gloria a’ giorni miei.
DRUSILLA
Ch’io viva e mora teco altro non voglio.
Dono alla mia fortuna
tutto ciò che mi diede,
pur che tu riconosca
in cor di donna una costante fede.
LITTORE
Orsù, finiamla, andate alla malora.
NERONE
Delibero e risolvo
il ripudio d’Ottavia,
e con perpetuo esiglio
da Roma io la proscrivo.
Sia pur condotta al più vicino lido.
Le s’appresti in momenti
qualche spalmato legno,
e sia commessa al bersagliar de’ venti.
Convengo giustamente risentirmi.
Volate ad ubbidirmi.
SCENA V
Poppea, Nerone
POPPEA
Signor, oggi rinasco a’ primi fiori
di questa nova vita.
Voglio che sian sospiri
che ti facciano fede
che rinata per te, languisco e moro,
e morendo e vivendo ognor t’adoro.
NERONE
Non fu, non fu Drusilla,
ch’ucciderti tentò.
POPPEA
Chi fu, chi fu il fellone?
NERONE
Il nostro amico Ottone.
POPPEA
Egli, da se?
NERONE
D’Ottavia fu il pensiero.
POPPEA
Or hai giusta cagione
di passar al ripudio.
NERONE
Oggi, come promisi,
mia sposa tu sarai.
POPPEA
Sì caro dì veder non spero mai.
NERONE
Per il Trono di Giove, e per il mio,
oggi sarai, ti giuro,
di Roma Imperatrice.
In parola regal te n’assicuro.
POPPEA
In parola regal?
NERONE
In parola regal.
POPPEA
Idolo del mio cor, giunta è pur l’ora
ch’io del mio ben godrò.
NERONE, POPPEA
Né più s’interporrà noia o dimora.
Cor nel seno non ho,
me’l rubasti, sì, sì,
dal sen me lo rapì,
de’ tuoi begl’occhi il lucido sereno,
per te, mio ben, non ho più core in seno.
Stringerò tra le braccia innamorate
chi mi trafisse, ohimè,
non interrotte avrò l’ore beate,
se son perduto/a in te,
in te mi cercarò,
in te mi trovarò,
e tornarò a riperdermi, cor mio,
che sempre in te perduto/a esser vogl’io.
SCENA VI
Arnalta
ARNALTA
Oggi sarà Poppea
di Roma Imperatrice.
Io che son sua nutrice,
ascenderò delle grandezze i gradi.
No, no, col volgo io non m’abbasso più.
Chi mi diede del tu,
or con nova armonia
gorgheggierammi il vostra Signoria.
Chi m’incontra per strada
mi dice fresca donna, e bella ancora,
ed io pur sò che sembro
delle Sibille il legendario antico.
Ma ognun così m’adula,
credendo guadagnarmi
per interceder grazie da Poppea.
Ed io fingendo non capir le frodi,
in coppa di bugia bevo le lodi.
Io nacqui serva, e morirò matrona.
Mal volentier morrò.
Se rinascessi un dì,
vorrei nascer matrona, e morir serva.
Chi lascia le grandezze,
piangendo a morte va.
Ma chi servendo sta,
con più felice sorte,
come fin degli stenti ama la morte.
SCENA VII
Ottavia
OTTAVIA
Addio Roma, addio patria, amici addio.
Innocente da voi partir convengo
io vado a distillarmi in pianti amari,
navigo disperata i sordi mari.
L’aria, che d’ora in ora
riceverà i miei fiati,
li porterà per nome del cor mio
a veder, a baciar le patrie mura,
ed io, starò solinga,
alternando le mosse ai pianti, ai passi,
insegnando pietade ai tronchi, e ai sassi.
Ahi, sacrilego duolo,
tu m’interdici il pianto
mentre lascio la patria,
né stillar una lacrima poss’io
mentre dico ai parenti, e a Roma addio.
SCENA VIII
Nerone, Poppea, Consoli, Tribuni, Amore, Venere, Coro Amori
NERONE
Ascendi, o mia diletta,
della sovrana altezza
all’apice sublime.
Circondata dalle glorie
ch’ambiscono servirti com’ancelle.
Acclamata dal mondo, e dalle stelle.
Siano del tuo trionfo,
tra i più cari trofei,
adorata Poppea, gl’affetti miei.
POPPEA
Il mio genio confuso
al non usato lume,
quasi perde il costume,
Signor, di ringraziarti.
Su queste eccelse cime,
ove mi collocasti,
per venerarti a pieno,
io non ho cor che basti.
Doveva la natura
al sopra più degli eccessivi affetti,
un core a parte fabbricar ne’ petti.
NERONE
Per capirti negl’occhi
il sol s’impicciolì;
per albergarti in seno
l’alba dal ciel partì;
e per farti sovrana a donne e a Dee,
Giove nel tuo bel volto
stillò le stelle e consumò l’Idee.
POPPEA
Dà licenza al mio spirto,
ch’esca dall’amoroso labirinto
di tante lodi e tante,
e che s’umilii a te come conviene,
mio Re, mio sposo, mio Signor, mio bene.
NERONE
Ecco, vengono i consoli e i tribuni
per riverirti, o cara.
Nel solo rimirarti
il popolo e’l senato
omai comincia a divenir beato.
CONSOLI, TRIBUNI
A te, sovrana augusta,
con il consenso universal di Roma,
indiademiam la chioma.
A te l’Asia, a te l’Africa s’atterra.
A te l’Europa, e’l mar che cinge e serve
questo Imperio felice,
ora consacra e dona
questa del mondo imperial corona.
CORO AMORI
Scendiam, compagni alati.
Voliam, voliamo ai sposi amati.
AMORE
Al nostro volo,
risplendano assistenti i sommi Divi.
AMORI
Dall’alto polo
si veggian fiammeggiar raggi più vivi.
AMORE
Se i consoli e i tribuni,
Poppea, t’han coronato
sovra provincie e regni,
or ti corona, Amor, donna felice,
come sopra le belle, Imperatrice.
O Madre, con tua pace
in ciel tu sei Poppea,
questa è Venere in terra.
VENERE
O figlio, io mi compiaccio,
di quanto aggrada a te;
diasi pur a Poppea
il titolo di Dea.
NERONE, POPPEA
Su, su, Venere ed Amor
esalti, lodi l’alma, esalti il cor!
Nessun fuga l’aurea face,
benché strugga sempre piace.
AMORI
Or cantiamo giocondi,
festeggiamo ridenti in terra e in cielo
il gaudio sovrabbondi,
e in ogni clima, in ogni regione
si senta rimbombar: Poppea e Nerone.
NERONE, POPPEA
Pur ti miro, pur ti godo,
pur ti stringo, pur t’annodo,
più non peno, più non moro,
o mia vita, o mio tesoro.
Io son tua…
Tuo son io…
Speme mia, dillo, dì,
tu sei pur, l’idol mio,
sì, mio ben,
sì, mio cor, mia vita, sì.